S come Sceneggiati noir
Il noir negli sceneggiati italiani Rai (1959-1981)
di Mario Gerosa
Negli sceneggiati Rai realizzati tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘80 il noir è molto presente, anche se i lavori dichiaratamente noir si contano sulle dita di una mano.
In verità il noir è una specie di stato d’animo diffuso che pervade molti teleromanzi e originali televisivi, anche profondamente differenti tra loro. Tra gli sceneggiati trasmessi dalla Rai in quel lungo periodo sono rarissimi i noir puri, e si evidenziano invece molte opere afferenti a generi diversi che hanno una sensibile componente noir. Alla prima categoria, quella dei noir integrali, si è avvicinato più volte Biagio Proietti, con i soggetti di sceneggiati quali Ho incontrato un’ombra (1974), un thriller noir che riecheggia anche nel titolo l’idea degli incubi neri di Cornell Woolrich, La mia vita con Daniela (1976), che è a tutti gli effetti un noir psicologico, e L’ultimo aereo per Venezia (1977), un solido esempio di noir italiano con riferimenti indiretti a reali fatti di cronaca.
In altri casi, il noir affiora tra le pieghe della narrazione, senza manifestarsi in modo esplicito. In tal senso, per molti registi italiani attivi in televisione, il noir diventa spesso un esercizio di stile che viene applicato a contesti apparentemente discordanti. Talvolta, addirittura, si ha l’impressione che certi autori vogliano dar prova di un vero e proprio virtuosismo, cimentandosi col noir, utilizzandolo per arricchire ulteriormente una sequenza, una storia o un episodio. E’un noir, forse inatteso, sicuramente sui generis, L’idiota (1959) di Giacomo Vaccari con Giorgio Albertazzi nel ruolo del principe Myskin; un noir al calor bianco, di glaciale bellezza, in cui il regista rilegge con una certa libertà Dostoevskij, accentuandone l’atmosfera folle e allucinata, costruendo al contempo una storia di amori e di intrighi raccontata con tono moderno, ai confini dell’avanguardia. Non si trattò soltanto di un esercizio virtuosistico, ma del desiderio e del bisogno di attualizzare un classico, avvicinandolo alla percezione del telespettatore, realizzando una raffinatissima operazione culturale che riesce a mediare le atmosfere dei più cupi tra i Gialli Mondadori e le analisi introspettive di uno dei grandi classici della letteratura russa, peraltro molto frequentata dagli autori del piccolo schermo.
Il reality noir e il noir tinto di sovrannaturale
Ha un ruolo di primo piano nell’ambito dei noir anomali e trasversali anche il coevo I figli di Medea (1959) di Anton Giulio Majano, con Enrico Maria Salerno che rapisce il figlio suo e di Alida Valli in una specie di tragico reality show vissuto in presa diretta. In quella finta telecronaca messa in scena da Majano, che diresse anche alcuni noir cinematografici, come L’eterna catena (1952) e Terrore sulla città (1957), c’è lo stesso panico dei personaggi sperduti nei grandi noir americani, soli e isolati nella frenesia della metropoli. E’ un noir sovrannaturale Il segno del comando (1971), che ha consegnato alla storia della televisione italiana il volto spiritato di Ugo Pagliai smarrito in una Roma spettrale alla ricerca di Lucia (Carla Gravina), una donna idealizzata e impossibile, e sono assolutamente noir, magnificamente agghiaccianti nella loro natura di favola nera, Le avventure di Ciuffettino (1969) di Angelo D’Alessandro, il racconto provocatorio e surreale di una tormentata e onirica iniziazione alla vita. Sono tutti esempi di sceneggiati con una forte inflessione noir. Una categoria di cui fa parte anche Dov’è Anna? (1976), regia di Piero Schivazappa, il cui soggetto è firmato da Diana Crispo e Biagio Proietti, che qui predilige la dimensione del “noir sociale”, che avvinghia la vita quotidiana nella morsa di un’angoscia da Chi l’ha visto? (dal 1989) ante litteram.

Strano a dirsi, ma questi sono tutti noir. Fatti salvi i primi esempi, ovvero i noir a tutto tondo di Biagio Proietti, altri sono sceneggiati giocati sull’ibridazione, tutti diversi tra loro, eppure accomunati da un codice che fa riferimento a un consumato atlante di espressioni, situazioni ed emozioni, dalla vertigine del turbamento psichico alla femme fatale, al senso di colpa che attanaglia chi è, o si sente semplicemente, in difetto. Sono anche riuniti da un sottotesto ben nascosto che fa riferimento al cinema noir, doviziosamente riletto e reinterpretato. Un discorso che vale anche a proposito di Ciuffettino, che riporta alla mente la filiazione espressionista del cinema noir, con la sua galleria di personaggi inquietanti che ne fanno una specie di versione horror del Mago di Oz (1939).
C’è quindi un intricato sistema di rimandi tra diversi generi. A proposito della televisione italiana, si è parlato spesso di esperimenti riusciti di meta-narrazione, soprattutto nel caso di vari lavori di Daniele D’Anza, che a più riprese, per esempio in Non cantare, spara! (1968), creò elaborati giochi di ri-mediazione culturale, riassemblando e modificando vari elementi e linguaggi di programmi televisivi precedenti. In generale si tratta di lavori in cui la televisione rilegge se stessa, autofagocitandosi, secondo un’attitudine viva e presente in tutta la storia della Rai, dagli anni ‘60 ad oggi (riferimenti obbligati sono Blob, Techeté, ma riflettono questa tendenza anche varie fiction e tanti programmi di Renzo Arbore).
Quando, poi il referente di queste eleganti operazioni della televisione italiana non è la televisione stessa, ma il cinema, il medium, lo strumento utilizzato per questa reinvenzione, è proprio il noir, che aldilà del suo significato poetico intrinseco, di portatore di un certo insieme di storie e stati d’animo, diventa la spia di una presenza dell’idea di cinema nella narrazione televisiva.
Il “fattore noir”

In tal modo il “fattore noir”, che da un lato serve a creare un gergo familiare per lo spettatore medio anche quando si affrontano opere decisamente impegnative (il noir serve per così dire a “diluire” Dostoevskij e Tolstoj), ha anche la vocazione di contaminare la televisione con un elemento indiscutibilmente cinematografico. Pochi autori sono rimasti immuni da questo desiderio di ammantare di noir uno più lavori. C’è chi, come Sandro Bolchi, si è limitato a qualche esperimento sporadico, come le magnifiche sequenze noir dei Promessi sposi (1967), che si merita lo status di noir televisivo già con la storia della monaca di Monza, con Lea Massari, tormentata femme fatale manzoniana nella terza puntata, e con il colloquio tra il conte zio (Cesare Polacco) e il padre provinciale (Augusto Mastrantoni) nella quinta puntata. Bolchi, in particolare, sembra fare riferimento inaspettatamente al noir americano: se la Gertrude di Lea Massari ha come ascendenza diretta le donne infelici del cinema nostrano di Matarazzo, il Conte zio di Cesare Polacco pesca invece nelle personalità sordide di personaggi chandleriani messi in scena da Edward Dmytryk e da Billy Wilder.
Altri invece hanno sviscerato le potenzialità del noir testandole in diversi ambiti. Emblematico il caso di Anton Giulio Majano, la cui produzione può essere letta come un’“opera quadro” per cogliere le diverse direzioni intraprese da un genere. Negli sceneggiati di Majano una sotto-corrente definisce proprio una piccola enciclopedia del noir, riletto secondo varie accezioni: il noir gotico (Jane Eyre, 1957), il noir psicologico (Delitto e castigo, 1963), il noir ossessivo-colpevolizzante (Una tragedia americana, 1962), il noir melodrammatico (E le stelle stanno a guardare, 1971), il noir familiare (Il guardiano, 1963), il noir meta-televisivo (I figli di Medea, 1959), il noir storico- soprannaturale (Castigo, 1977), il noir all’americana (Il tenente Sheridan-La donna di fiori, 1965). Forse si potrebbe aggiungere anche un’idea di noir risorgimentale, con gli intrighi politico-sentimentali di Ottocento.

Nondimeno, il noir continua ad essere un elemento indistinto, ben celato, all’interno dei lavori degli autori televisivi italiani. Anche da una sommaria analisi dell’opera di Majano, che resta comunque uno degli autori più classici della tv, con una sintassi di regia molto chiara e limpida, ci si rende subito conto che è impossibile enucleare un elemento comune che rappresenti una possibile cifra stilistico-narrativa degli sceneggiati italiani di gusto noir di quel periodo. Ogni lavoro di Majano legge il noir in modo diverso, e, a parte un paio di opere –Romeo Bar (1958) e La sera del sabato (1966), in cui il genere è presentato in forma canonica ben esplicitata, tende a conglobarlo, rendendo impossibile definire una declinazione netta del noir televisivo italiano come elemento a se stante.
Comunque sia, negli sceneggiati italiani di allora era molto stratificata una solida base noir, che diventa una componente essenziale di narrazioni molto eterogenee, da Dostoevskij a Casacci e Ciambricco. Il noir in quel contesto non era il focus della narrazione, come invece avviene nei film di quel genere, che sono dichiaratamente tali nella forma e nel contenuto, ma un ingrediente tra gli altri, importante ma non essenziale. Una componente non accessoria, non una semplice nota di moda, ma comunque una parte del tutto.
Il gotico, il dramma familiare, il thriller psicologico
Nello sceneggiato italiano il noir serve quindi a dare una nota di colore a un determinato genere di narrazione, che mantiene la propria superiorità: il gotico, il dramma familiare, il thriller psicologico. Non si punta mai sul noir per il noir, è praticamente assente un’idea di noir fine a se stesso. Non c’è una celebrazione, o un’auto-celebrazione del genere, come avviene invece in molti film americani, e raramente ci sono omaggi diretti o indiretti: il noir televisivo all’italiana è più una sfumatura all’interno di storie che hanno una loro identità complessa. La città nuda (1948), Il grande sonno (1946) o Le catene della colpa (1947) sono perfette incarnazioni del noir, raccontano storie noir con uno stile noir. Negli sceneggiati italiani soprattutto quelli degli anni ‘60-70, invece, i contorni sono molto più sfumati. Col tempo, poi, si è arrivati a una semplificazione dei linguaggi. Il noir italiano di allora aveva moltissime sfaccettature: a differenza di quello di oggi, era estremamente eclettico, lontano da una definizione di noir classico, attribuibile invece a molti episodi delle fiction di Rocco Schiavone, Montalbano e Coliandro.
Un’ulteriore veste assunta dagli sceneggiati televisivi italiani è quella del “noir sociale”. Questa incarnazione appare più strutturale, giacché coinvolge profondamente anche la storia e non riguarda soltanto un discorso prevalentemente formale. Vari teleromanzi e originali televisivi, soprattutto negli anni ‘70, cercano di dare, tra le righe, una lettura critica della società. Non è solo un discorso di donne del mistero, inganni, l’intrighi che spingono in una voragine di tormenti, ma anche di riflessi di quei turbamenti nella vita quotidiana, di rovesciamento di quegli stessi problemi sulla realtà di tutti i giorni. Non si teme di confrontarsi e di contaminarsi con la cronaca e addirittura con la critica sociale. Questo approccio si coglie in sceneggiati come Dov’è Anna? (1976), dove emergono temi d’attualità, quali l’adozione e i disturbi mentali.

Questo atteggiamento è presente anche ne I figli di Medea (1959) di Majano come in Maternità (1967), un episodio della serie Vivere insieme girato da Eriprando Visconti. La critica sociale riaffiora anche in un noir familiare anomalo come L’edera (1974), uno sceneggiato diretto da Giuseppe Fina tratto da un romanzo di Grazia Deledda, dove Annesa (Nicoletta Rizzi), una solenne donna sarda, è protagonista con Don Paulo Decherchi (Ugo Pagliai), di una cupa vicenda che si svolge nella provincia di Nuoro, inedito contesto per una cupa vicenda raccontata con silenzi, sguardi taglienti e luci espressioniste, che culmina con la mesta confessione di Annesa a padre Virdis.
Nel noir sociale a volte irrompe anche il fantastico. Una modalità che in Italia assume una declinazione particolare. Per esempio, nei feuilleton francesi di gusto noir la linea di demarcazione tra reale e fantastico tende a rimanere sufficientemente definita, non si arriva mai a una completa contaminazione tra la realtà e l’immaginario: il fantastico irrompe nella vita di tutti i giorni ma mantiene la propria identità distinta, non c’è vera commistione tra vita e sogno.
Nel noir televisivo italiano, che tende a mimetizzarsi con la cronaca dei telegiornali, invece c’è talvolta un’osmosi con il fantastico, che a volte trova la sua giustificazione in un’idea di follia, o in taluni casi, nel paranormale o nel sovrannaturale. Ne è un esempio lo sceneggiato Il figlio di due madri (1976), tratto dal racconto di Massimo Bontempelli.Interpretato da Anna Maria Guarnieri, racconta la storia di un bambino conteso da due genitrici, in un clima di insanità mentale. Ottavio Spadaro, il regista, tratta questa vicenda in modo tagliente, senza paura di offrire una visione cruda senza pietà, mettendo in scena la lucida follia della donna, una follia che sfiora l’allucinazione. Anche la forma degli sceneggiati di questo genere è sempre molto curata. Lo spirito con cui i registi italiani televisivi si avvicinavano al noir era perlopiù quello dei cinefili. Il noir televisivo italiano spesso tende a oltrepassare il riferimento diretto al cinema nazionale per guardare oltre, a una dimensione europea o addirittura transoceanica (è piuttosto evidente in Una tragedia americana (1962) di Majano, ma anche nel ciclo del Tenente Sheridan, e in particolare nella serie delle “Donne”, i cui quattro episodi furono trasmessi dal 1965 al 1972). Seppur reinterpretata secondo una vulgata più affine ai gusti italiani, in quegli sceneggiati non di rado si coglie la filiazione dai riferimenti classici del noir, soprattutto quelli americani. Una componente, quella del cinema noir, che in un primo tempo si percepisce comunque come elemento estraneo, come riferimento diretto o indiretto al cinema, ma che poi, col passar del tempo, quando la televisione guarda indietro e rifà se stessa, con pastiche, parodie o riletture, diventa inscindibile dalla personalità dello sceneggiato stesso. Nei teleromanzi di seconda o di terza generazione, l’elemento noir tende ad amalgamarsi, e in tempi molto più recenti arriva a diventare un elemento costitutivo della storia e della sua forma.
Guardando oggi molti sceneggiati dell’epoca, si ha l’impressione di avere a che fare con appassionati che avevano una notevole conoscenza dei film e dei linguaggi del genere noir. Ne La pietra di luna (1972) di Majano, tratto dal romanzo di Wilkie Collins, fa da collante tra le varie suggestioni della vicenda una cronologia piuttosto complessa, di derivazione cinematografica da noir americano anni ‘50, dove si sovrappongono vari livelli di racconto proposti in flashback. A differenza del romanzo di Collins, dove è presente una sorta di polifonia narrativa orizzontale, con diverse voci che raccontano le proprie versioni dei fatti, nello sceneggiato di Majano la sceneggiatura dà grande peso anche alla dimensione del tempo, privilegiando la dimensione del ricordo e della memoria. Così il regista introduce vari stacchi temporali, collegando le narrazioni a periodi diversi, e avvalendosi dell’artificio del flashback, a lui così caro (vedi La cittadella, 1964): tra i vari livelli narrativi c’è la storia raccontata dal protagonista, la descrizione della missione del capitano in missione in India, e poi la versione del maggiordomo. Alla scansione narrativa temporale si affianca e si intreccia quella spaziale: qui, come già in Jane Eyre (1957),Majano si cimenta con carrelli e panoramiche nell’esplorazione e nella documentazione meticolosa degli spazi architettonici, prima addentrandosi nei cunicoli del tempio indiano, e poi nei corridoi di Villa Verinder, che per certi aspetti fa l’effetto di una versione speculare dell’edificio sacro, con le sue stanze opprimenti, traboccanti di oggetti, e con lo scalone concepito come un sinistro labirinto verticale.
Lo spazio dell’azione
Il concetto di spazio è fondamentale. In questo continuo mutare, lo sceneggiato noir italiano elabora comunque alcuni concetti di base, tramandati di decennio in decennio: una forte peculiarità è la centralità dello spazio dell’azione, determinante nello sviluppo di molte storie, da Ho incontrato un’ombra (1974) a Il segno del comando (1971), a Ritratto di donna velata (1975) di Flaminio Bollini. Il luogo è parte integrante dell’impalcatura narrativa del noir, e in tal senso il riferimento obbligato è ad alcuni classici del genere in cui l’architettura e lo spazio abitato hanno una forte centralità, come La scala a chiocciola (1946, Dietro la porta chiusa (1947), Il sospetto (1941), Rebecca la prima moglie (1940), Il castello di Dragonwyck (1946), Viale del tramonto (1950), e in una visione più estrema, Quarto potere (1941). Lo spazio teatro dell’azione si è imposto come componente determinante nel noir italiano fin dagli anni ‘50, quando Majano girava Jane Eyre (1957). Erano interni cupi classici, facilmente riconducibili a una tradizione iconografica immediata ed efficace. Col tempo, poi, il noir italiano televisivo ha cominciato a scoprire una dimensione più chiara e luminosa, con luci fredde e luoghi architettonicamente algidi e minimalisti, sulla scorta della lezione dei thriller anni ‘70. Gli spazi oscuri in cui si celano mobili polverosi e segreti reconditi vengono progressivamente asciugati emozionalmente, trasformati nella luminosità più asettica degli interni dei film di Dario Argento. Chi porta a termine quest’opera di codificazione degli spazi dello sceneggiato è Biagio Proietti, che in tutta la sua opera riserva una notevole attenzione agli spazi abitati. Sensibile alle descrizioni architettoniche di Edgar Alla Poe, da Casa Usher in poi, Proietti costruisce vari drammi proprio attorno agli ambienti costruiti, che influiscono in modo determinante su chi lo vive. Alcuni luoghi, prima ancora di prender forma nel disegno dello scenografo, sono evocati chiaramente in fase di sceneggiatura: la villa ultramoderna e minimale di Dussart in Ho incontrato un’ombra (1974), dove è un piccolo capolavoro architettonico anche l’appartamento di Corrado Gaipa, un antro stipato di oggetti e caldo come una serra in cui vive un uomo colpito dalla “maledizione dell’orchidea”, e poi, dalla serie Il fascino dell’insolito, la dimora spettrale di Veglia al morto (1980), le stanze animate di vita propria de La casa della follia (1981), l’angoscioso appartamento di Miriam (1980), l’enigmatica villa della Mezzatinta (1980). Il cerchio si chiude con la Casa Usher dello sceneggiato Racconti fantastici (1979) diretto da D’Anza e sceneggiato da Proietti.



Sempre per quanto riguarda gli spazi, lo sceneggiato noir italiano ha una natura “centripeta”, tende cioè a convogliare negli interni il climax della narrazione. E non è dovuto soltanto alla necessità di girare soprattutto in studio (un’esigenza sentita soprattutto nella prima fase della storia degli sceneggiati tv), giacché in vari teleromanzi sono state girate anche varie scene in esterni. E’ piuttosto una vocazione, una scelta di campo: nel noir classico cinematografico il paesaggio urbano è protagonista, la “città nuda” è una proiezione di torbidi inganni, mentre nel noir televisivo italiano la città ha comunque un ruolo marginale rispetto alle sequenze girate in interni. C’è un rovesciamento del noir dall’esterno all’interno. Il riferimento in questo caso sono le storie sul genere di Angoscia (1944), il noir vittoriano d’amosfera, che gioca sulle modulazioni psicologiche. Nei grandi noir americani gli uomini in balia del destino si perdono nei meandri delle metropoli, nei noir televisivi, ci si può perdere anche nei venti metri quadri di una stanza. Solo successivamente, negli anni 2000, in Italia si registrerà una tendenza del noir ad aprirsi prepotentemente verso la città, che diventa protagonista nei neonoir dell’epoca, da Romanzo criminale (2008-2010) a Gomorra (2014-2021), a Suburra (2017-2020).
Questa dello spazio domestico come introiezione dei pericoli e della drammaticità della metropoli è una peculiarità del noir televisivo italiano, che talvolta si coniuga alla predilezione per il filone sovrannaturale o esoterico, un genere all’interno di un genere il cui capostipite è Il segno del comando (1971), diretto da Daniele D’Anza, che mette in scena una complessa storia di doppie identità e di reincarnazione. Quello sceneggiato si pone nella linea di feuilleton horror noir francesi ormai di culto, come L’Agence Nostradamus (1950) e Belfagor ovvero il fantasma del Louvre (1965). Da un lato, quindi, Il segno del comando fa parte di un tipo di televisione francofona degli anni ‘60, che mischiava storia e mistero. Da un altro lato, invece può essere visto come pare integrante di un corpus di opere ascrivibili al genere thriller gotico e archeologico italiano, che comprende L’etrusco uccide ancora (1972) di Armando Crispino e La notte che Evelyn uscì dalla tomba (1971) e La dama rossa uccide sette volte (1972) di Emilio P. Miraglia.
Nel caso del Segno del comando, come di altri sceneggiati del mistero con decisi influssi noir, i riferimenti cinematografici cambiano. Tourneur, Hawks e Siodmak vengono sostituti da un repertorio visivo che guarda a Bava, a Freda e a Corman. Ci si stacca dall’idea di noir classico e si abbraccia quella di un noir d’effetto, più barocco.

Motivo dominante è spesso il tema della reincarnazione, presente in Malombra, il romanzo di Antonio Fogazzaro, riproposto come sceneggiato da Raffaele Meloni nel 1974, tre anni dopo Il segno del comando. L’idea della reincarnazione si ritrova in Castigo, tratto dal romanzo di Matilde Serao e girato nel 1977 da Anton Giulio Majano. Ambientata a Napoli, Firenze e Roma alla fine dell’Ottocento, la storia vede dipanarsi una complessa sequela di tradimenti, di gelosie, di ipocrisie e di dolorose espiazioni, dove prende forma una complessa geometria dell’ignavia e della colpa. In un momento in cui in televisione andavano per la maggiore i gialli psicologici, mentre altri mettevano in scena storie ambientate nel presente, spesso nell’Inghilterra di Francis Durbridge, Majano opta per un giallo d’epoca, per un dramma della mente che sfiora le tematiche tanto in voga in quegli anni, ovvero la reincarnazione (si veda Il misterioso caso Peter Proud (1975), ma anche L’amaro caso della baronessa di Carini (1975) di D’Anza, per restare in ambito televisivo) e lo sdoppiamento di personalità. E curiosamente compie un ribaltamento completo di prospettiva e ambienta il suo giallo psicologico in Italia, soprattutto a Napoli. Il senso di morte e di disfacimento è evocato fin dall’inizio, dalle rovine di Pompei, come dall’oggettistica proto liberty che conferisce un carattere funereo agli ambienti. Il regista addobba una messa in scena opulenta, votata a un mesto massimalismo, dove non si fa mancare nulla: l’atmosfera vagamente dannunziana è pervasa da un tono lugubre e funereo, dove trova asilo anche un’idea sommessa di neopaganesimo, che introduce un ulteriore elemento, quello della sacralità, in un contesto noir in cui quasi tutti i riferimenti del genere rispondono all’appello.
SCHEDE
La pietra di luna (Anton Giulio Majano, Italia, 1972, bianco e nero, 6 episodi [67’, 67’, 60′, 67, 62’, 66’]). Con Valeria Ciangottini (Rachele Verinder), Aldo Reggiani (Franklin Blake), Andrea Checchi (Betteredge), Mario Feliciani (ispettore Cuff), Giancarlo Zanetti (Godfrey), Maresa Gallo (Rosanna), Armando Alzelmo (Briggs), Lida Ferro (Giulia), Mariella Fenoglio (Lucy), Vittorio Stagni (Barnaby), Mariella Furgiuele (Gwendolyn), Enrica Bonaccorti (Penelope), Enrico Ostermann (dottor Candy), Leonardo Severini (generale Wilberforce), Michele Calamera (John Verinder), Elio Jotta (Garlic); soggetto: dal romanzo La pietra di luna di Wilkie Collins; adattamento: Carlo Fruttero e Franco Lucentini; musiche: Giancarlo Chiaramello.
India, 1799. John Verinder, capitano dell’esercito britannico, nei giorni dell’assedio della fortezza di Seringapatam trafuga in un tempio un enorme diamante dal valore propiziatorio, detto “la pietra di luna”. Cinquant’anni dopo, il diamante viene offerto alla giovane Rachele Verinder per il suo diciottesimo compleanno. Ma la pietra preziosa viene rubata la notte stessa, dando l’avvio a una concatenazione di misteriosi eventi su cui fa luce l’ispettore Cuff, che a distanza di tempo riapre il “cold case”.
La pietra di luna, opera di Wilkie Collins molto apprezzata da T.S. Eliot e da Gilbert K. Chesterton, il quale la definì “probably the best detective tale in the world”, è un lavoro di confine. Nella trama del romanzo, che vanta due versioni cinematografiche, a firma di Frank Hall Crane (1915) e di Reginald Barker (1934), si intrecciano il plot dell’intrigo, la storia d’amore e un tema da avventura coloniale. A questi elementi Anton Giulio Majano -che si rivolse a Carlo Fruttero e Franco Lucentini, autori di gialli ed esperti di fantascienza, per l’adattamento televisivo-, aggiunse una vena surreale, presente in vari momenti dello sceneggiato, che a tratti assume una dimensione onirica. Alla costruzione di questa atmosfera esotico-enigmatica, che nel corso delle sei puntate prende il sopravvento fino a diventare la nota dominante di tutta la storia, contribuisce un cast mirato, con attori riconducibili a capisaldi del cinema di genere. Il ruolo di Rachele Verinder, una delle indimenticabili donne del mistero degli sceneggiati televisivi dell’epoca, è affidato a Valeria Ciangottini, che qualche anno prima aveva recitato nel Vizio e la virtù di Roger Vadim, dove era la detenuta numero 113. Protagonista maschile è Aldo Reggiani, che il pubblico aveva già apprezzato nella Freccia nera e che l’anno prima, nel 1971, aveva frequentato i territori del thriller, scelto da Dario Argento per Il gatto a nove code. E va segnalata anche la presenza di Enrica Bonaccorti, che nel 1972 lavorò anche nel cult di Sergio Martino Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave.

In tal modo, attraverso quegli attori legati ad alcuni film chiave, si definisce un possibile sottotesto ad uso e consumo dei cinefili. Attorno ai due personaggi principali, che rimandano ad altri arcani e ad altri misteri, si creano scene che amplificano questo alone di incertezze e di velate paure. Anton Giulio Majano non di rado introdusse un elemento “weird”, un’idea di stranezza, di senso dell’insolito nei suoi sceneggiati. E qui, in un allestimento che strizza l’occhio al cinema di Schoedsack e di Zoltán Korda, non mancano gli intermezzi stranianti, per esempio quando entrano in scena i tre bramini che viaggiano in Europa per recuperare la pietra rubata: sono personaggi felliniani di gusto circense che contribuiscono a definire un alone di poesia lunare, rafforzato da una costante presenza di follia latente. La stessa atmosfera enigmatica è evocata da Giancarlo Zanetti, volto iconico degli sceneggiati italiani di suspense di quegli anni, nel ruolo di Godfrey, un uomo ambiguo che inganna e depista con i suoi travestimenti.
A un livello più superficiale, invece, Majano racconta con provata professionalità la storia vera e propria, rimanendo aderente al romanzo, più immediatamente fruibile, dove le passioni d’amore si coniugano al mistero. Fa da collante tra le varie suggestioni della vicenda una cronologia piuttosto complessa e stratificata, dove si sovrappongono vari livelli di racconto proposti in flashback. A differenza del romanzo di Wilkie Collins, dove è presente una sorta di polifonia narrativa orizzontale, con diverse voci che raccontano le proprie versioni dei fatti, nello sceneggiato di Majano la sceneggiatura dà grande peso anche alla dimensione del tempo, privilegiando la dimensione del ricordo e della memoria. Così il regista introduce vari stacchi temporali, collegando le narrazioni a periodi diversi, e avvalendosi dell’artificio del flashback, a lui così caro (vedi La cittadella): tra i vari livelli narrativi c’è la storia raccontata da Franklin Blake (il fidanzato di Rachele Verinder) adulto, la descrizione della missione del capitano John Verinder in India, e poi la versione del maggiordomo. Alla scansione narrativa temporale si affianca e si interseca quella spaziale: qui, come già in Jane Eyre, Majano si cimenta con carrelli e panoramiche nell’esplorazione/documentazione meticolosa degli spazi architettonici, prima addentrandosi nei cunicoli del tempio indiano, e poi nei corridoi di Villa Verinder, che per certi aspetti fa l’effetto di una versione speculare dell’edificio sacro, con le sue stanze opprimenti, traboccanti di oggetti, e con lo scalone concepito come un sinistro labirinto verticale.
La pietra di luna venne trasmesso sul Primo canale della Rai dal 21 aprile al 9 maggio 1972.
Mario Gerosa
Castigo (Anton Giulio Majano, Italia, 1977, colore, 4 episodi [70’, 65’, 65′, 67’]). Con Eleonora Giorgi (Luisa/Hermione), Alberto Lionello (Cesare Dias), Aldo Reggiani (Luigi Caracciolo), Laura Belli (Laura Acquaviva), Marcello Tusco (Carafa), Giulio Platone (Palliano), Gino Lavagetto (Tornabuoni), Dante Biagioni (Firidolfi), Corrado Annicelli (Giacomo), Gino Donato (parroco); soggetto: dal romanzo Castigo di Matilde Serao; sceneggiatura: Anton Giulio Majano e Ivo Perilli; fotografia: Massimo Sallusti; musiche: Riz Ortolani.
La storia si svolge a Napoli, Firenze e Roma alla fine dell’Ottocento. E’ una vicenda di tradimenti, di gelosie, di ipocrisie e di dolorose espiazioni, dove prende forma una complessa geometria dell’ignavia e della colpa. Cesare Dias tradisce la bella e giovane moglie, Luisa, con la sorella di lei, Laura Acquaviva. E Luisa, a sua volta, è oggetto dell’amor platonico di Luigi Caracciolo, un amico di famiglia che non riesce ad esternare i propri sentimenti. Luisa, per punire il marito fedifrago e l’amante irrisolto, si vendica togliendosi la vita, privando entrambi della propria presenza. Curiosamente, poi, la donna ricompare dal nulla, sotto le sembianze di Hermione, una signora aristocratica inglese giunta in Italia per turbare le esistenze dei tre colpevoli.

In un momento in cui in televisione andavano per la maggiore i gialli psicologici, mentre altri mettevano in scena storie ambientate nel presente, spesso nell’Inghilterra di Francis Durbridge, Anton Giulio Majano opta per un giallo d’epoca, per un dramma della mente che sfiora le tematiche tanto in voga in quegli anni, ovvero la reincarnazione (si veda Il misterioso caso Peter Proud, ma anche L’amaro caso della baronessa di Carini, per restare in ambito televisivo) e lo sdoppiamento di personalità. E curiosamente compie un ribaltamento completo di prospettiva e ambienta il suo giallo psicologico in Italia, regalando soprattutto a Napoli, città eminentemente solare, lontana dalle cupezze letterarie romantiche, una dimensione sovrannaturale, rivelata ed esaltata più tardi da alcuni giallisti di valore, come Diana Lama, l’autrice dell’Anatomista.
Castigo è uno dei lavori più eleganti e raffinati di Majano, che amplifica a dismisura il carattere decadente del romanzo di Matilde Serao: il senso di morte e di disfacimento è evocato fin dall’inizio, dalle rovine di Pompei, come dall’oggettistica proto-liberty che conferisce un carattere funereo agli ambienti. Il regista addobba una messa in scena opulenta, votata a un mesto massimalismo, dove non si fa mancare nulla: l’atmosfera vagamente dannunziana è pervasa da un tono lugubre e funereo, dove trova asilo anche un’idea sommessa di neopaganesimo, quale si coglierà qualche anno dopo anche nell’Aphrodite di Robert Fuest, un film di culto che riporta a sua volta alle invenzioni letterarie di Pierre Louys. E del flair delle Chansons di Bilitis, di un’antichità classica vagheggiata e mantenuta in sordina, c’è un ricordo vago e stentoreo in Castigo. Majano, da sempre attento alla letteratura e alla cultura del Sud Italia, si attiene al romanzo di Matilde Serao, ma in filigrana si sentono gli echi del Sâr Peladan, della pittura stanca e splendidamente annoiata di Lawrence Alma-Tadema, e, perché no, un empito del nervoso storicismo viscontiano dell’Innocente.
La storia si dipana nelle stanze delle residenze nobiliari di Napoli e Roma, nei grand hotel e nei ristoranti alla moda della capitale, tra le cappelle di famiglia del monumentale camposanto di Poggioreale, nelle camere mortuarie e nei boudoir illuminati dal debole bagliore delle lampade a petrolio, che spandono una luce fioca sugli steli dei crisantemi, sui vasi in pasta di vetro e sui velluti gialli e violacei.
Protagonista è Eleonora Giorgi, che si sdoppia per dar vita a una dama dall’identità indecifrabile, dalla doppia dimensione esistenziale, un po’ come successe a Carla Gravina nel ruolo di Lucia nel Segno del comando, lo sceneggiato seminale di Daniele D’Anza. Alla Giorgi, algida e eterea, che riprende la grande tradizione di donne perse nei labirinti della psiche, prima fra tutte Olivia de Havilland dello Specchio scuro, si contrappone la presenza più concreta e mediterranea di Laura Belli. Dal contrasto tra le due donne si sviluppa un gioco al massacro di estrema finezza.
Il senso di morte, di fine imminente, è il motivo conduttore imperante di questo teleromanzo dove la bella Luisa sembra muovere i fili di un pericoloso triangolo. “E’ un gioco morboso”, come nota acutamente Carafa, un amico di Cesare Dias. Luisa si è reincarnata nel corpo di Hermione (o così pare) per destabilizzare la vita di chi l’ha rifiutata. E mentre la morta, o presunta tale, si prende la sua vendetta, i vivi pensano di potersi consolare con amori proibiti e necrofili: sia Cesare che Luigi sono ossessionati dal fantasma di Luisa, presente in ogni istante della loro vita. L’uno e l’altro sono come anestetizzati, ebbri di memorie, allucinati dai fatti che li sovrastano e li confondono. E mentre perdono sempre più il contatto con la vita vera, sprofondano in un tessuto visivo di filtri fluo che suggeriscono un’idea di irrealtà e sottolineano i ricordi annebbiati e il senso di perenne straniamento, di vigile dormiveglia.
Castigo fu trasmesso in quattro puntate sul primo canale della Rai dal 2 novembre al 18 dicembre 1977.
Mario Gerosa